A imporre all’attenzione del mondo accademico il fenomeno delle fusioni strategiche tra istituti di istruzione superiore fu per la prima volta uno studio uscito nel 1994 ad opera di James Martin e James Samels intitolato Merging Colleges for Mutual Growth. In esso veniva predetto che il settore dell’istruzione terziaria americana sarebbe stato dominato, nell’immediato futuro, dall’aumento esponenziale delle fusioni tra università che avrebbe lasciato in vita solo pochi mega-atenei. In una successiva analisi del 2002 i due ricercatori si videro costretti a ridimensionare le proprie previsioni: le università americane del terzo millennio paiono avere imboccato la via della cooperazione più che quella delle fusioni vere e proprie, il cui numero rimane modesto. Prima di giungere a una fusione completa tra istituti, le interrelazioni tra università (o college specialistici, politecnici, accademie e altre tipologie di istituti) conoscono difatti una vasta gamma di sfumature che, passando dall’occasionale cooperazione al più stretto coordinamento, assumono di volta in volta la forma di collaborazione informale, di alleanza strategica, di consorzio, di rilascio di titoli congiunti, di reti e consorzi regionali, nazionali o internazionali, di condivisione di strutture e di fusione di dipartimenti accademici appar- tenenti a istituti diversi. Con il termine “fusione” (merger) si intende difatti solo ed esclusivamente l’unione o l’incorporazione formale tra due o più istituti di istruzione superiore allo scopo di creare sinergie vantaggiose tra di essi o di stimolarne la crescita reciproca. Due preesistenti orga- nizzazioni separate e distinte, ciascuna dotata di una propria amministrazione, diventano quindi una struttura unitaria con un unico organismo di controllo.
Un’idea che ha origini lontane
Sebbene siano da poco oggetto di studio e di ricerca le fusioni non sono un fenomeno recente: tanto per fare un esempio, nel Regno Unito la University of Bristol è sorta nel 1893 proprio a seguito di una fusione e nel tempo si sono avuti ripetuti esempi di piccoli college specialistici e monodisciplinari attratti nell’orbita di università di maggiori dimensioni.
Di certo le fusioni odierne avvengono per motivi molto differenti rispetto a 40-50 anni fa, quando iniziarono a divenire numericamente consistenti. Agli inizi esse originavano da un’azione governativa – e dunque esterna – volta a rinsaldare due atenei deboli uniti in una più robusta entità oppure a inglobare una università in crisi economica o di iscritti in un istituto di successo. Ora invece le fusioni scaturiscono da una volontà interna agli stessi istituti e coinvolgono sovente università di alto profilo che, in questo modo, si prefiggono di perseguire obiettivi strategici chiaramente definiti.
Laddove solo pochi decenni fa le fusioni erano dettate da una impostazione di fondo mirante a combattere la frammentazione delle istituzioni di istruzione superiore o a impedire la chiusura di atenei a corto di risorse, ora le università coinvolte puntano a salvaguardare e anzi ad accentuare il proprio vantaggio strategico per rispondere al meglio alle sfide e alle opportunità esterne. Le fusioni sono servite a unire dipartimenti o facoltà, ma anche, e soprattutto, istituzioni. Alcune hanno avuto strascichi problematici, molte altre hanno dato risultati positivi tradottisi in un rafforzamento della quantità e della qualità dei programmi accademici offerti; a trarne beneficio è stata soprattutto la ricerca, potenziata come produzione e come flusso di finanziamenti.
Dagli anni Sessanta all’ultimo decennio del XX secolo la maggior parte delle fusioni, come si diceva, derivava dalla volontà dei governi di ogni angolo d