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I numeri da cambiare. Scuola, università e ricerca
Associazione Treellle e Fondazione Rocca
 


Genova 2012, pp. 160
L’indagine I numeri da cambiare – Scuola, università e ricerca. L’Italia nel confronto internazionale, condotta da Associazione TREELLLE e Fondazione Rocca, analizza con estrema precisione i vari aspetti del sistema formativo italiano confrontandoli con le realtà e con i risultati conseguiti negli altri Paesi industrializzati. Il volume è suddiviso in quattro sezioni (indicatori di contesto; scuola; università e formazione permanente; ricerca, nuove conoscenze e innovazione). Tabelle e grafici illustrano gli argomenti trattati, e alla fine di ogni sezione sono individuate le questioni aperte relative alle principali anomalie italiane, ovvero i «numeri da cambiare» citati nel titolo. Queste criticità, che contraddistinguono e penalizzano l’Italia, gli fanno rischiare l’uscita dal novero dei Paesi ad alto sviluppo (emergenza economica) e da quello dei Paesi avanzati (emergenza culturale), lasciando la popolazione poco informata e facilmente manipolabile (emergenza democratica). La competizione globale è strettamente legata alla qualità del capitale umano disponibile, elemento decisivo per lo sviluppo culturale, sociale ed economico. Risente ovviamente della quota di popolazione che raggiunge i tassi di istruzione più elevati e non può prescindere dall’adeguatezza e dalla funzionalità delle risorse e degli strumenti a disposizione. Per quanto riguarda più da vicino il segmento dell’istruzione superiore, il Rapporto attribuisce lo spread negativo italiano a varie cause:
      spesa inadeguata per il sistema terziario: a forte prevalenza pubblica, come in gran parte dell’Europa continentale e in contrapposizione agli Stati Uniti e al Regno Unito, ove è consistente il settore privato, che lega l’ammontare delle tasse d’iscrizione al successo delle singole istituzioni sul piano della didattica e della ricerca;
      insufficiente contribuzione studentesca al finanziamento di una spesa in continua crescita;
      alto tasso di abbandoni: il nostro tasso di immatricolazione è a livello europeo, ma è presente la peculiarità tutta italiana degli studenti fuori corso e di quelli inattivi, che dopo l’immatricolazione non sostengono alcun esame. Italia e Spagna hanno il più basso numero di istituzioni erogatrici di istruzione terziaria, seppure con capillare diffusione territoriale (nel 2010-11 ben 222 comuni italiani hanno ospitato almeno un corso universitario);
      assenza di istruzione post-secondaria professionalizzante (non universitaria), con conseguente assenza di differenziazione interna dei corsi offerti e scarsa corrispondenza tra domanda e offerta laureati;
      scarsa efficacia ed efficienza delle attuali politiche di sostegno allo studio;
      necessità di nuovi criteri per il reclutamento, la remunerazione e la definizione del carico di lavoro: i nostri docenti universitari sono mediamente i più anziani ed è pressoché inesistente la quota dei trentenni, più o meno riscontrabile negli altri sistemi (Francia e Spagna 5%, Regno Unito 10%, Germania 17%). La struttura gerarchica interna per fasce d’inquadramento – per effetto dei pensionamenti non sostituiti – è tornata a una situazione nuovamente piramidale (27% ordinari, 29% associati, 43% ricercatori) ;
      scarse risorse per la formazione post-laurea (dottorati) e scarsa collaborazione con le imprese;
      inadeguate politiche di regolazione delle autonomie del sistema universitario;
      carenza di informazioni e valutazioni sulla qualità dell’offerta di formazione terziaria, che possano orientare la scelta degli studenti.
Un quadro di luci e ombre caratterizza anche il settore della ricerca scientifica nelle università e nelle istituzioni pubbliche non universitarie, in presenza di alcune nazioni (USA, Regno Unito e Germania) che vantano la leadership per numero di pubblicazioni, di citazioni su riviste internazionali e di brevetti. Mentre la Germania sembra il Paese dove la collaborazione tra ricerca pubblica e privata è più forte, in Italia è cresciuto l’impegno finanziario delle imprese ma è diminuito quello degli atenei.
 
Maria Luisa Marino
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