Non ingerenza negli affari interni, concezione a “scatola chiusa” dello Stato, utilizzo mirato delle grandi multinazionali di origine cinese per penetrare nei mercati africani e di un sapiente mix fra aiuti umanitari e assistenza economica. Sono questi gli assi portanti della politica estera cinese in Africa, come ricostruiscono innumerevoli saggi che negli ultimi anni hanno scandagliato le ragioni del successo e le caratteristiche di una partnership rafforzata dopo l’11 settembre quando, mentre l’attenzione della comunità internazionale era concentrata sul Medio Oriente e sulla lotta globale al terrorismo, la ricerca di petrolio e di nuovi sbocchi commerciali ha ulteriormente avvicinato la leadership cinese a quella africana.
La presenza della Cina in Africa è passata in pochi anni da argomento per specialisti di geopolitica a tema centrale nell’agenda internazionale e nella vita quotidiana del Continente. Il commercio bilaterale tra le due aree si è moltiplicato per cinquanta tra il 1980 e il 2005, passando da 10 a 55 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2006 e potrebbe sfiorare i 100 miliardi nel 2010. Oggi la partnership sino-africana si sta rivelando qualcosa di più di una forma di cooperazione: sembra piuttosto prefigurare la proposta di un vero e proprio modello di sviluppo assai diverso da quello che l’Occidente ha cercato di imporre all’Africa, e non privo di pericoli, perché il modello cinese è basato sulla mera crescita economica, alla quale vengono subordinati i diritti politici, civili e la protezione dell’ambiente.
Quale sarà a lungo termine il ruolo e l’impatto della Cina in Africa? Nasce da questa domanda Cinafrica. Pechino alla conquista del continente nero (Il Saggiatore, 2009) dei giornalisti francesi Serge Michel, corrispondente di Le Monde dall’Africa occidentale, e Michel Beuret, caporedattore Esteri della rivista L’Hebdo. Corredato dalle immagini del fotoreporter Paolo Woods, frutto di un viaggio durato due anni in 15 paesi africani e in Cina, il saggio offre uno spaccato vivido e lucido di quanto sta avvenendo in Nigeria, Niger, Congo, Zambia, Angola, Camerun, Senegal e in paesi affacciati sul Mediterraneo come Egitto e Algeria. I reportage nei cantieri cinesi in Africa, gli incontri con piccoli e medi imprenditori cinesi che in Africa hanno scoperto i grandi spazi, l’esotismo, l’avventura individuale o addirittura spirituale e le interviste con personalità dell’intelli- ghenzia cinese formano la trama di un racconto avvincente su quanto sta nascendo dall’incontro tra due mondi agli antipodi per geografia e cultura e di quello che potrebbe risultare nei prossimi anni dalla presenza di oltre 900 aziende cinesi sparse nel Continente Nero.
Vivere in Africa come se si fosse in Cina
Quanti lasciano la Cina per l’Africa, raccontano i due cronisti, mantengono la tendenza a restare fra loro e a mangiare come a casa propria, non si sforzano di imparare le lingue autoctone e nemmeno l’inglese e il francese e mostrano un certo disgusto all’idea di uniformarsi ai costumi locali o addirittura di sposare un’africana. Ma allo stesso tempo non si lasciano spaventare dalla corruzione, che secondo i partner occidentali soffoca qualsiasi attività economica in Africa, e neanche dall’assenza di democrazia, che essi stessi non hanno conosciuto in Cina. Si cimentano spesso con imprese che non avrebbero mai pensato di avviare in Cina, come racconta Philippe Zhang (il cui nome cinese è Ke Qian) in un capitolo illuminante per capire la sete della Cina non solo di petrolio ma anche di pesci, prodotti agricoli e soprattutto legno. Ex-corrispondente dell’agenzia di stampa Cina nuova in Congo, Zhang oggi dirige una azienda forestale che partecipa con altre compa