Occorre «ripensare il concetto di sviluppo in Africa» e restituire un primato all’economia ovvero ai «bisogni domestici» interni al Continente. L’africanista Jean-Léonard Touadi invita a rivolgere lo sguardo verso le caratteristiche e le suggestioni dell’“economia informale” e del protagonismo che essa assicura ai suoi attori. Nato in Congo-Brazzaville nel 1959 e in Italia dal 1979, giornalista e autore di vari saggi sull’Africa, primo parlamentare di colore della storia italiana eletto alla Camera nel 2008, Touadi vede con speranza la pacificazione di alcune regioni del Continente e la crescita economica rilanciata dalla partnership cinese. Ma sottolinea le criticità di questa partnership: essa non avrà effetti positivi sul cammino dell’Africa verso il pieno rispetto dei diritti umani, del pluralismo e della democratizzazione, rimarca in questa intervista a “Universitas”.
Onorevole Touadi, Lei ha documentato come il controllo delle potenze coloniali sia continuato con gli strumenti dell’economia anche dopo la decolonizzazione. Cosa è cambiato negli ultimi 15 anni nella percezione delle vie d’uscita dal sottosviluppo?
A mio avviso il dibattito sullo sviluppo, e in particolare se l’Africa sia o non sia idonea allo sviluppo, è sbagliato, perché non può esserci un’idea di sviluppo adatta per tutti i popoli e tutti i tempi. Questa è la critica da fare con coraggio e senza complessi: lo sviluppo non è uguale per tutti. Proviamo a risalire alle origini, al momento in cui il concetto di sviluppo è stato imposto al contesto africano attraverso la cosiddetta occidentalizzazione del mondo. Ebbene, nel XVI secolo l’economia mondo viveva la sua prima tappa con il commercio triangolare: giunta sulle coste africane, la merce europea veniva scambiata con schiavi che nelle Americhe producevano merci che tornavano in Europa. La seconda fase arriva con la colonizzazione vera e propria, con l’Europa che entra nella rivoluzione industriale e che ha bisogno sia di materie prime che di sbocchi per la produzione: siamo al commercio rettangolare. La decolonizzazione ha coinciso con l’introduzione di un terzo tipo di economia, quello del controllo attraverso il commercio internazionale e lo sfruttamento delle risorse: 500 anni fa l’Africa era un immenso serbatoio di materie prime, e anche oggi è rimasta un forziere di risorse, il ruolo non è mutato. Dunque il concetto di sviluppo non si è evoluto in Africa di pari passo con le sue culture e tradizioni: l’Africa è stata inclusa nell’economia mondo, ma esclusa in quanto subalterna.
Certamente l’indipendenza avrebbe dovuto aprire una fase nella quale non solo riappropriarsi del proprio destino ma rifondare l’economia, a cominciare dalla critica del concetto di sviluppo. Così non è stato, perché i leader africani si sono ispirati talvolta al socialismo, talaltra al capitalismo, ma entrambe queste ideologie hanno prodotto effetti negativi anziché tener conto delle specificità e dei bisogni geostrategici e geoambientali dell’Africa. Il risultato è che l’indipendenza politica non è stata seguita da quella economica: oggi non si può parlare di economia africana perché essa lavora per l’esterno e non per gli interessi della sua gente. Nel frattempo si è sviluppata la cosiddetta economia informale che andrebbe studiata a fondo. Perché tale economia ha tre qualità di fondo. Primo: nell’economia informale c’è un protagonismo delle persone che non si trova nell’economia formale. Secondo: i bisogni ai quali la produzione economica risponde sono interni e non esterni. Terzo