Le multinazionali vanno ampliando sempre più la propria sfera di azione in Africa, attratte dalle ingenti riserve di materie prime e dalle opportunità economiche e commerciali che tale area geografica offre*. L’Africa, difatti, è il continente più ricco di risorse naturali e molte sono le società e gli enti impegnati nel loro sfruttamento. Petrolio, diamanti, oro, rame e coltan (un minerale ampiamente usato nell’industria aerospaziale e degli armamenti e per la fabbricazione dei telefoni cellulari, ndt) – solo per citare alcune tra le sue tante risorse – muovono interessi economici enormi. Ma l’Africa è anche un mercato in espansione, verso cui confluiscono importazioni dei più diversi settori, dall’editoria all’elettronica, dall’alimentare al tessile, dall’industria automobilistica a quella degli armamenti.
Nei propri paesi di origine le multinazionali stanziano sovente fondi ingenti a favore dell’istruzione per motivi che vanno dai benefici fiscali e dal ritorno di immagine al sincero desiderio di contribuire al generale progresso economico e sociale. In che misura però sono esse disposte e interessate ad assumersi anche all’estero analoghe responsabilità? Questo articolo esamina la portata e l’impatto potenziale di tale fenomeno nonché gli aspetti positivi e negativi legati all’impiego delle risorse delle multinazionali per la promozione dell’istruzione superiore e della ricerca in Africa.
Damtew Teferra, nel sottolineare che svariate fondazioni filantropiche che contribuiscono con elargizioni tanto cospicue quanto indispensabili a progetti sociali e formativi si sono sviluppate per volere di personalità illuminate ai vertici di realtà economiche di successo (Carnegie, Ford, Gates, MacArthur e Rockefeller), rammenta che a trarre beneficio da azioni poste in essere in aree quali gli studi climatici e ambientali, la sicurezza alimentare e le scienze mediche sono non solo le popolazioni locali, ma tutti i paesi di una data area geografica e, in ultima analisi, l’intera comunità globale. Egli si chiede quindi come ottenere nel concreto un maggior impegno da parte delle principali multinazionali per promuovere ricerca, insegnamento e innovazione nella regione africana.
Oltre le azioni di facciata: uno scenario con soli vincitori
Le multinazionali sono già attive in Africa con iniziative di sviluppo di base miranti a garantire l’erogazione di acqua potabile, la realizzazione di sistemi viari, la creazione di strutture sanitarie e la tutela dell’ambiente attraverso opportune misure di conservazione e salvaguardia. Quali che siano le intenzioni che spingono le multinazionali a sostenere queste iniziative, si tratta di azioni lodevoli che contribuiscono al benessere degli Stati e dei loro cittadini.
Tuttavia, se si vuole che le scuole così assistite abbiano docenti, le strutture sanitarie medici e infermieri e le società di costruzione ingegneri, occorre che le istituzioni preposte a formare tutti questi specialisti funzionino in modo ottimale. È dunque necessario che le multinazionali in Africa contribuiscano non solo a quelle attività pubbliche che sono sotto gli occhi di tutti, ma anche a quegli sforzi meno visibili, e pur tuttavia vitali, che generano lo sviluppo di competenze.
Quando la De Beers, il colosso dei diamanti, ha trasferito alcune delle proprie attività in Botswana, paese che è tra i maggiori produttori di tale minerale, è finita sui titoli dei giornali di tutto il mondo. I media hanno giustamente sottolineato l’anomalia: estrarre ed esportare le pietre grezze è la norma, farle lavorare in loco è l’eccezione.
Devolvendo una piccola parte delle proprie risorse per la ricerca, l&r