L'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) ha recentemente riaperto il dibattito sulla necessità di inserire l'insegnamento in lingue minoritarie presso gli atenei europei.
Durante un incontro a Vienna nello scorso luglio, l'Alto Commissario OSCE per le Minoranze nazionali ha ribadito che l'istruzione superiore deve essere accessibile anche alle minoranze linguistiche quale veicolo per la piena integrazione e la coesione sociale. La maggior parte dei relatori del convegno viennese ha concordato sul fatto che non c'è un modello universalmente applicabile per rendere accessibile l'istruzione superiore alle minoranze, ma che ogni modello ha la sua valenza in base al contesto in cui viene applicato.
L'argomento è di grande attualità considerato l'assetto geo-politico che si è delineato negli ultimi venti anni nei Balcani e nei paesi dell'ex-Unione sovietica. Minoranze etniche reclamano tra i propri diritti anche l'introduzione di percorsi universitari nella propria lingua, paralleli alla lingua nazionale, nel pieno rispetto dei principi sanciti dal Documento di Copenhagen sulla Dimensione umana nella CSCE (oggi OSCE).
Tuttavia offrire un'istruzione universitaria solo in lingue minoritarie favorisce un effetto "ghettizzante" a scapito dell'auspicata integrazione europea. Pertanto le università europee si stanno orientando verso soluzioni miste, offrendo percorsi formativi sia in lingua nazionale che in lingue minoritarie. Ad esempio, l'Università "Babes-Bolyai" di Cluj-Napoca (Romania) ha attivato alcuni insegnamenti in romeno e altri in ungherese, l'Università "South East European" di Tetovo (Macedonia) propone corsi in macedone, albanese ed inglese. L'obbiettivo di questi corsi è di favorire l'integrazione sociale in paesi sede di continui conflitti etnici, nonché prevenire tali conflitti.
Carmen Tata