Il Mulino, Bologna 2010, pp. 177, 13 euro
Le università italiane – istituzioni gigantesche, talvolta sull’orlo del fallimento, con forte tendenza alla chiusura provinciale – figurano ormai nelle posizioni medio-basse delle graduatorie internazionali. Come si è arrivati a questa situazione e che cosa si può fare per uscirne? In questo saggio Andrea Graziosi (docente di Storia contemporanea all’Università di Napoli “Federico II” e presidente della Sissco, Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea) più che stimolare un dibattito già assai vivace, tenta di «mutare, almeno in parte i problemi che lo animano e le prospettive in cui essi sono affrontati» e analizza le tappe fondamentali degli ultimi 50 anni: la vecchia università di élite; l’università nel dopoguerra e la grande mutazione del 1958-1968; la scossa e i “provvedimenti urgenti” (1968-1979); una riforma tardiva e sbagliata: gli anni Ottanta; un’autogestione chiamata autonomia (1989-1996); l’Unione Europea, la Riforma Berlinguer e i suoi aggiustamenti (1996-2008); le prospettive dell’università e il disegno di legge Gelmini. «Cinquant’anni di riforme e mutamenti che hanno trasformato la vecchia università di élite in una grande e indistinta università di massa, che era indubbiamente necessaria alla moderna società italiana, ma che ha messo in secondo piano qualità e ricerca. Scelte politiche, interessi corporativi e buone intenzioni si sono spesso saldati inducendo un degrado progressivo della formazione universitaria».
Il ragionamento di Graziosi è chiaro: la costruzione dell’università di massa è stata completata – anche se in modo non sempre accorto e con un livello medio «non eccelso» – e i grandi investimenti ad essa necessari sono stati fatti; non è invece comparsa nel nostro paese l’università di ricerca, la nuova forma evolutiva assunta dalle università di élite: «questo tipo di università, che non può che essere selettiva, meritocratica e di dimensioni limitate, richiederebbe quindi interventi radicali, posto che si decida che il nostro paese abbia bisogno anche di essa, […] vista l’importanza che l’università di ricerca ha per lo sviluppo scientifico, quello economico e la formazione di élite culturali e professionali di livello internazionale».
Per l’autore «il tramonto del vecchio modello elitario europeo-continentale, e in specie di quello italiano, superato da quello delle università di ricerca e annegato dalla nuova università di massa, non dovrebbe generare rimpianti, ma spingere a studiare le migliori esperienze straniere: quanto è accaduto nei paesi anglosassoni e soprattutto negli Stati Uniti potrebbe fornire alcune risposte e altre potrebbero venire dall’analisi dei processi in corso nei paesi asiatici, proprio come lo studio dell’università tedesca fornì nell’Ottocento tanto alle élite che hanno costruito il nostro sistema universitario, quanto a quelle americane, che hanno prodotto nel Novecento un nuovo tipo di università di ricerca dopo aver importato il modello tedesco. E se è vero che ciò comporta, almeno all’inizio, un certo appiattimento della nostra tradizione culturale su quelle di altri paesi, la sua ibridazione è il presupposto indispensabile alla sua rinascita».
«Non è irrealistico prospettare – conclude Graziosi – una progressiva differenziazione di atenei, facoltà o scuole e dipartimenti che favorisca la salvaguardia e il potenziamento delle isole di eccellenza già presenti nel nostro sistema, e aiuti la comparsa in Italia di nuclei di università di ricerca a livello di dipartimenti e centri di ricerca più che di interi atenei, che comunque sarebbero spinti anch’essi, se lo volessero e ne avessero forza e capacità, a migliorare il loro livello».
Secondo l’autore «sembra inoltre possibile muovere in direzione della scomposizione del sistema universitario nazionale in almeno due sistemi, creando il settore di istruzione superiore professionalizzante e affidandolo alle regioni. Ciò è tanto necessario perché è prevedibile che la domanda di istruzione superiore di questo tipo – che è dietro buona parte dell’aumento del numero degli atenei – continuerà a crescere, ed è chiaro che se la sua soddisfazione verrà affidata come in passato alle università, ogni sforzo teso a migliorarne il livello è destinato al fallimento. Vi sono oggi in Italia, malgrado la loro moltiplicazione, meno di 100 istituti di istruzione superiore a fronte delle migliaia statunitensi e delle centinaia inglesi, e sarebbe perciò necessario prevedere sin d’ora che la crescita futura possa avvenire in modo differenziato, indipendentemente da quel che si deciderà di fare dell’esistente».
Graziosi ritiene necessario:
– migliorare l’intero sistema universitario, che conserverebbe in parte il suo carattere di massa, distaccandone però l’istruzione superiore professionale;
– differenziare questo sistema al suo interno, definendo con intelligenza i requisiti richiesti per acquisire la certificazione necessaria a rilasciare dottorati di ricerca e lauree magistrali e triennali nelle varie discipline, e permettendogli di selezionare i suoi studenti;
– fare emergere al suo interno le punte di eccellenza, anche a livello internazionale, già oggi presenti, favorendone e sostenendone le sviluppo.
Secondo l’autore, inoltre, «occorrerebbe trovare una giusta combinazione di approccio centralistico, che nel nostro Paese sembra irrinunciabile ma che va fondato su una valutazione rigorosa, e incentivi alla reale autonomia di atenei e dipartimenti, che li spinga ad agire in modo virtuoso».
Luca Cappelletti