vol. 24, n. 4, dicembre 2011
Quale ruolo potrà svolgere l’università per lo sviluppo sostenibile, non in termini di astratte strategie politiche, ma di approccio scientifico al corretto utilizzo delle risorse e di formazione multidisciplinare di coloro che dovranno salvaguardarle? E quanto emerge dal n. 4/2011 di “Higher Education Policy”, il trimestrale dell’International Association of Universities, interamente dedicato alla Sustainability in Higher Education; gli interventi affrontano la tematica da angolature diverse, anche proponendo l’esempio di alcune iniziative realizzate con successo da vari atenei sparsi nel mondo, come la Shinshu University giapponese, la University of Gloucestershire britannica e la Memorial University canadese.
La sostenibilità è divenuta un problema prioritario, legato alla crescita dell’industrializzazione e della popolazione mondiale. Ormai può essere considerata un settore scientifico indipendente che si avvale dell’apporto di altre discipline, come scienze ambientali, economiche e sociali. È prevedibile però che, come per tutte le strategie educative, l’efficacia dei programmi di studio e il conseguente effetto moltiplicatore dell’informazione e dell’interesse da parte degli studenti escano fortemente rafforzati se accompagnati dalla dimostrazione pratica (ad esempio, campus greening).
Finora sono stati messi in atto diversi indicatori della sostenibilità per misurare i risultati raggiunti. Su tutti prevale il modello che attribuisce un ruolo di primo piano all’insegnamento e alla ricerca, e incoraggia lo scambio di esperienze tra università a livello internazionale. Il lavoro in gruppo è un mezzo per superare le difficoltà della ricerca inter- e transdisciplinare e per favorire il raggiungimento degli obiettivi, identificati sulla base di comuni interessi, ripartendone i costi e attuando la peer review. Ne rappresenta un valido esempio lo sviluppo del sistema giapponese di accreditamento universitario: nel 2007 si contavano 86 università nazionali, 89 pubbliche e 580 private, con l’80% della popolazione universitaria concentrato nelle pubbliche e nelle private. L’inefficace sistema di autovalutazione ha ceduto il posto dal 2004 a significative riforme, che hanno assimilato molti principi del Processo di Bologna: primo fra tutti l’accreditamento – da ripetere ogni 7 anni – da parte di agenzie esterne e l’adozione di criteri standardizzati per il trasferimento dei crediti. In linea anche con la situazione negli Stati Uniti, ma su base obbligatoria e non volontaria.
Maria Luisa Marino