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Qual è lo stato di salute dell’Università italiana a dodici anni dalla riforma? Un quesito ambizioso, cui tenta di dare risposte documentate questo nuovo studio della Fondazione Agnelli, volto a stilare un bilancio critico della riforma del doppio livello. Obiettivo, evidenziare punti di forza e criticità di una riforma che ha segnato una svolta epocale per gli atenei italiani. Nel bene e nel male. Il rapporto della Fondazione Agnelli (impegnata da tempo a scandagliare i nodi critici della scuola e dell’università) è scandito in sette capitoli: dallo studio della situazione pre e post-riforma ai cambiamenti registratisi in seno alla popolazione universitaria e ai percorsi di studio; dai rapporti tra università e imprese alle prospettive di lavoro per i neo laureati; fino alla situazione in Europa e alle proposte di miglioramento per il futuro. Una fotografia in chiaroscuro, che mette in evidenza sia le buone pratiche, sia le contraddizioni del processo di attuazione della riforma, evidenziando le prospettive di scenario che attendono il nostro sistema universitario, chiamato alla difficile sfida del rinnovamento imposta dall’Europa. Numerosi gli spunti di riflessione ricavabili dal Rapporto. In primis, l’efficacia della riforma nell’attrarre un numero maggiore di studenti e di congedare una quantità sempre crescente di laureati, in tempi più rapidi rispetto al passato. Accanto a questi buoni segnali, ve ne sono altri meno incoraggianti, che attestano come il processo di attuazione vada ancora migliorato in alcuni passaggi fondamentali. In particolare, sono mancati una regia centralizzata della riforma e un efficace sistema di controllo e di valutazione, fattori che hanno determinato l’accentuarsi della innata autoreferenzialità delle Università: in molti casi si è pensato più ad espandere gli organici che a innovare l’offerta formativa, con scelte solo in parte ispirate ai reali bisogni formativi di una popolazione studentesca in rapida evoluzione, sempre più ampia e diversificata. In ogni caso il Rapporto mette in evidenza i due risultati conseguiti sul fronte dell’allargamento della base sociale dell’Università: l’attrazione di ceti sociali precedentemente esclusi (o solo parzialmente inclusi) e la correzione (ma soltanto parziale) del carattere di selettività sociale dell’università, risultante dall’aver agevolato l’immatricolazione alle lauree magistrali e a ciclo unico. Ma come sono cambiati i corsi? Si conferma una tendenza già acclarata: ad eccezione degli ex-diplomi, le lauree triennali del nuovo ordinamento offrono una formazione breve, ma non professionalizzante. Ma se è vero che è sempre arduo attivare corsi in grado di soddisfare le istanze del mercato del lavoro, è altrettanto vero che le stesse imprese stentano a vedere nei laureati triennali soggetti adeguatamente formati sul piano delle abilità professionali. Del resto le imprese non hanno ancora piena consapevolezza del loro diritto/dovere di suggerire agli atenei le competenze effettivamente richieste. Il quadro generale è sostanzialmente deficitario: «la riforma è stata vittima della mancanza di un interesse collettivo. Quasi come se l’università fosse un’immensa impresa autogestita, in cui singoli o gruppi hanno facoltà di scegliere i comportamenti individualmente più opportuni e le attività sono orientate a fini particolari: bastava trovare una città senza una sede universitaria, una disciplina bisognosa di risorse, uno studente desideroso di iscriversi a qualunque condizione». Di qui le non poche anomalie registratesi sul versante della coriandolizzazione dei corsi, della stanzialità del corpo docente, della mancata internazionalizzazione, della limitata accountability, della proliferazione delle sedi decentrate. Ecco spiegato il parziale fallimento di una riforma il cui impianto normativo, «non mal disegnato, è stato mal gestito in assenza di linee di indirizzo e di incentivi corretti». La Fondazione suggerisce pertanto cinque proposte correttive per migliorare il grado di attuazione della riforma: differenziare il sistema universitario, distinguendo meglio formazione triennale, professionalizzante e magistrale/dottorale; conseguire un accreditamento basato sulle risorse effettivamente disponibili e su un monitoraggio costante; ancorare il finanziamento ai costi standard per studente e interiorizzare un sistema di incentivi volto a trasformare i diplomati in buoni laureati (condizione necessaria per poter procedere con la liberalizzazione delle tasse); differenziare le carriere lavorative del personale docente, in funzione di una diversa definizione delle prerogative gestionali, didattiche e di ricerca; abolizione delle lauree a ciclo unico, che «non hanno ragione di esistere dal punto di vista del processo formativo e nemmeno da quello del funzionamento di un mercato del lavoro competitivo». Questa la ricetta della Fondazione Agnelli per l’Università italiana, alle prese con la difficile sfida del cambiamento.
Andrea Lombardinilo
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