De Ferrari Editore, Genova 2012, 122 pp., 15 euro
Un’antologia che studia l’università degli ultimi due secoli dal punto di vista filosofico. Humboldt, riformatore dell’Università di Berlino nel 1809-1810, ministro dell’Istruzione del governo prussiano, è stato il promotore di un’università moderna: autonoma dallo Stato, che deve solo garantire aiuti esterni, e socratica nei fini, sempre in costante posizione di ricerca.
Se nella scuola esistono il maestro e il discente, nell’università entrambi esistono in funzione della scienza: non si accolgono passivamente i saperi, ma c’è una libera collaborazione tra chi insegna e chi impara. Poiché la scienza non è una conoscenza acquisita, l’esperienza del professore si unisce all’energia dello studente in un’incessante ricerca della verità. Il fine è la ricerca scientifica e la formazione morale dell’uomo: per questo Humboldt propone una formazione completa, che unisca la scienza alla formazione morale. L’innovazione di Humboldt è proprio nell’idea di formare l’umanità: è nell’università che si formano non solo i ricercatori, ma anche i funzionari dello Stato e i professionisti, i magistrati, i medici, i maestri. C’è quindi un delicato equilibrio tra la ricerca scientifica (per pochi) e la preparazione professionalizzante (per la maggioranza). Egli progetta un sistema educativo in cui il conseguimento della competenza professionale mira alla formazione completa dell’uomo. Egli sostiene che l’università è un istituto di libertà che ha bisogno di una struttura semplice e snella. Concezione molto distante da quella attuale: «Oggi l’università è come un supermercato – scrive Domenico Venturelli – con crediti e debiti e offerta formativa. Con la raccolta a punti e i premi. Un’università deformata con un’immensità di corsi».
Per John Henry Newman l’università aiuta lo studente a «imparare a imparare», ad allargare le conoscenze coltivando la mente. Quindi l’università, oltre ai contenuti – che richiedono un metodo –, deve trasmettere l’educazione: implica un’azione sulla nostra natura mentale, la formazione di un carattere. Il fine di un corso universitario non è il diritto o la medicina, ma una visione di tutto il sapere, con un’ampiezza mentale, libertà e autocontrollo, cioè l’educazione liberale. Newman dice no alla mera erudizione, no all’enciclopedismo illuminista, no alle nozioni. Gli strumenti che fornisce l’università sono le capacità di sintesi e l’ampiezza mentale che si ha solo con il confronto delle idee. La conoscenza è vista non come acquisizione, ma come filosofia. Centrale in questo senso è la teologia, che dà senso al sapere e ne permette la sintesi.
Karl Jaspers è molto legato alla visione di Humboldt, pensa a un’università romantica, guidata dalla filosofia. Vede l’educazione in modo socratico e lo studente come risorsa indispensabile per la conoscenza. Sapere e ricerca vivevano però cambiamenti epocali a causa dello sviluppo di scienza e tecnica, dell’avvento dell’industria, delle masse, della democrazia. Proprio nella massificazione e negli apparati burocratici statali Jaspers colse il pericolo più grande per lo spirito dell’università che dovrebbe unire ricerca, insegnamento e formazione.
Il filosofo tedesco husserliano Martin Heidegger vorrebbe recuperare una concezione unitaria della scienza.
Per Edith Stein, di origine ebraica, anche lei tedesca e husserliana (tradusse il saggio di Newman The idea of University nel 1923, quando si era già convertita al cristianesimo), l’università forma l’uomo nella sua globalità, virtù comprese, conformemente al progetto pensato per lui da Dio. Un lavoro scientifico condotto in profondità educa a essere scrupolosi, retti, a rifuggire dalla superficialità e da tutto ciò che è retorica. Il pericolo è un sapere di tipo specialistico, privo di anima. Anche per lei, sulla scia di Humboldt e di Newman, insegnamento e ricerca sono strettamente collegati.
Nel volume altri approfondimenti sono dedicati a Giovanni Gentile, Max Weber, Ernst Bloch e Jürgen Habermas.
Marialuisa Viglione
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