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IAU, vol. 25, n. 2/giugno 2012, pp. 147-262
In primo piano il crescente interesse cinese per i programmi di istruzione universitaria all’estero che, sorti spontaneamente, stanno ora conoscendo una certa regolamentazione, legata alla crescita e all’integrazione economica del Paese (è stato ammesso al World Trade Organization-WTO) e al suo crescente bisogno di personale altamente specializzato.
L’internazionalizzazione dell’insegnamento superiore comporta anche la circolazione delle idee e dei valori morali, oltre alla mobilità di studenti, docenti, programmi e corsi di studio. Non mancano perciò gli interventi che, in una prospettiva culturale, esprimono il timore che l’importazione acritica di sistemi pedagogici occidentali operi come un cavallo di Troia nei confronti della realtà locale, e allo stesso tempo che la priorità accordata agli aspetti commerciali finisca con il dirottare le risorse finanziarie disponibili sulla didattica piuttosto che sulla ricerca, altro elemento imprescindibile della missione universitaria. Senza contare il rischio che la mobilità studentesca finisca con l’alimentare il brain drain all’interno e ancor più all’esterno dell’area orientale, dove si fa sempre più serrata la concorrenza per accaparrarsi il miglior capitale umano disponibile, ritenuto elemento indispensabile per assicurare la competitività economica.
La ricetta adottata nei casi esaminati opera su due fronti. Da un lato mira ad accrescere l’attrattività dei sistemi universitari locali, non lesinando l’erogazione di fondi anche in tempi di recessione economica globale; sul piano internazionale incoraggia il rafforzamento dei legami con le più prestigiose istituzioni universitarie estere e il conseguente avvio di joint degrees. In particolare, l’articolo di Aaron Koh, dell’Hong Kong Institute of Education, evidenzia le tattiche (Global Schoolhouse Project), messe in atto da Singapore per trattenere e attirare i talenti dall’estero offrendo borse di studio, cambiando le politiche di immigrazione e invogliando al rientro in patria i propri studenti all’estero, quelli che i cinesi chiamano Hai Gui (tartarughe di mare).
Più in generale, in Asia si stanno facendo strada significativi cambiamenti nelle destinazioni della migrazione studentesca. Alla mobilità verticale, indirizzata dai paesi in via di sviluppo verso quelli economicamente più avanzati, si sta gradualmente sostituendo quella orizzontale all’interno dei paesi stessi della Regione: ad esempio, nel 2008 il Giappone ha lanciato il Global 30 project per attirare 300.000 studenti internazionali e il Kuala Lumpur Education City (KLEC) in Malesia ha messo in atto innovative azioni per divenire un centro universitario di eccellenza.
Secondo le statistiche Unesco, i Paesi asiatici assicurano ancora complessivamente oltre la metà (55%) degli studenti internazionali ed è previsto che anche nel prossimo decennio si troveranno al primo posto nell’alimentare il mercato di migranti per studio, ma più per ospitarli che per esportarli. Fatta eccezione per il Giappone, è ancora negativo il saldo tra gli studenti in partenza e in arrivo: in Cina (-390.148), Hong Kong (-25.745), Corea (-72.266), Vietnam (-29.365) e India (-126.779). Ma il panorama è destinato a mutare a breve termine, indirizzando i flussi verso Australia, Cina, Malesia, Corea, Vietnam e Taiwan piuttosto che verso un ristretto numero di Paesi anglofoni, la Germania e la Francia.
Un problema a parte è costituito dal reinserimento lavorativo in patria, che valorizzi le capacità professionali acquisite all’estero e rafforzi i legami commerciali con i paesi di formazione. Con tre specifiche azioni programmatiche a lungo e medio termine (National plan for medium and long-term scientific and technological development, 2006-2020; National plan for medium- and long-term human resources development, 2010-2020; National plan for medium- and long-term education reform and development, 2010-20) la Cina ha messo in atto una strategia per mettere a profitto i risultati, creando una sorta di pool di talenti che l’attuale economia di mercato, subentrata a quella pianificata, fa preferire ai laureati indigeni, che in tal modo vengono penalizzati nell’aspettativa di una vita migliore.
Maria Luisa Marino
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