Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2012, 168 pp., € 15
Pietro Bucci (1932-1994), chimico di origini napoletane, fu un grande innovatore dell’università italiana; diede una spinta propulsiva alla costruzione e all’internazionalizzazione dell’Università della Calabria di cui fu rettore («Durante i suoi anni di rettorato guidò l’università come realtà dinamica per la formazione delle nuove professioni», Giuseppe Frega), ruolo che ricoprì anche nell’Università Campus Bio-Medico di Roma (Paolo Arullani, presidente del Campus Bio-Medico, lo ricorda con grande stima, come scienziato e come uomo).
Nel 2004 – a dieci anni dalla scomparsa – l’Università della Calabria gli dedicò un convegno; in quell’occasione gli venne intitolato il ponte che collega le palazzine della città universitaria, da cui il titolo del presente volume. Un titolo non solo per indicare fisicamente quel ponte, ma anche tutti i ponti che Bucci ha tracciato: con gli studenti, con le università straniere, con i suoi colleghi, con la politica, con le amministrazioni locali, trasformando l’Università della Calabria in un campus modello di ricerca e didattica.
Giuseppe Chidichimo, sottolineando il ruolo di Bucci nel progresso della Calabria, afferma che il ponte che ci ha lasciato è «concepire la vita come servizio agli altri per il progredire della società tutta»; per lui, la figura di Bucci dovrebbe essere conosciuta non solo in Calabria, ma nel mondo universitario italiano e in particolare dai ricercatori, come esempio di ottimismo e di capacità di orientare l’intelligenza verso mete scientifiche nuove.
Tutti lo ricordano con nostalgia: amici, professori, colleghi e allievi. Dalle parole dei suoi amici, riportate da Alessandro Pagano, emerge un uomo di grande apertura mentale, di onestà intellettuale, umile (un docente si stupì nel vederlo al bar a giocare a tresette con i camionisti), e con la capacità di rimanere calmo di fronte alle mille difficoltà che ostacolavano i suoi progetti grandiosi su università e ricerca.
Il rettore dell’Università della Calabria Giovanni Latorre lo definisce un “visionario” nel senso inglese del termine, ovvero colui che ha avuto una visione sull’università. Anticipò il Processo di Bologna, coinvolgendo anche gli studenti nelle decisioni, collaborando con ricercatori stranieri, sviluppando la ricerca e dando una spinta propulsiva alla didattica, richiamando professori da tutto il mondo.
I suoi allievi, poi diventati docenti, ricordano che andava a “stanare” i giovani talenti per costruire l’Università della Calabria. Ebbe una visione lucida verso i nuovi scenari dell’istruzione terziaria, e riuscì a dare il meglio anche nella ricerca, coordinando il gruppo nazionale di lavoro sui cristalli liquidi.
Seppe difendere pubblicamente gli amici contro il baronato: lo stesso Chidichimo ricorda come spinse la sua nomina a professore associato con un articolo su “Repubblica”, nonostante i nemici all’interno della commissione.
Le sue prime scoperte in campo chimico, relative alla risonanza magnetica nucleare, risalgono al periodo in cui fu professore straordinario alla Normale di Pisa. Passò poi all’Università di Napoli e a quella di Cosenza (Rende) dove, come rettore, si occupò dello sviluppo edilizio e intellettuale: voleva che quell’università fosse un richiamo per gli studenti a livello internazionale. Concluse la sua carriera a Roma, dedicandosi al progresso del Campus Bio-Medico.
Uomo di fede e scienza, disse una volta: «Se si trovassero alcune terzine della Divina Commedia in una caverna primitiva e si pensasse che si sono create spontaneamente, sembrerebbe un’assurdità. E allora perché si può anche solo pensare che una cellula, la più semplice, che ha informazioni 5mila volte superiori all’intera Divina Commedia, sia un prodotto spontaneo?».
Marialuisa Viglione