Saggi Tascabili, Bompiani, Milano 2012, pp. 96, € 9,90
Nato a Trieste nel 1966, Francesco Magris si è laureato in Economia e Commercio a Trieste, ha conseguito il PhD all’Università Cattolica di Lovanio (Belgio) e un post-doc a Cambridge. Attualmente è ordinario nell’Università “François Rabelais” di Tours. Questo breve cenno biografico serve a inquadrare l’autore nel tempo e nello spazio: ovvero è un docente universitario abbastanza giovane con un curriculum di respiro internazionale.
In questo breve ma esauriente saggio, Magris si interroga sulla valutazione della ricerca scientifica, una questione al centro di un dibattito piuttosto vivace dove sono presenti punti di vista molto diversi tra loro.
Da più parti vengono lanciati segnali di allarme per lo stallo in cui versa l’università italiana, e in particolare la nostra ricerca. Il sistema italiano è certamente afflitto dalla presenza di un corpo docente anziano (che ha superato da tempo il periodo della vivace produttività scientifica) e dalla scarsa trasparenza nelle procedure di selezione, ma non basta questo a spiegarne il declino. Il valore del lavoro è forse poco ancorato alla produttività e la mancanza di adeguati incentivi economici finisce per mortificare l’impegno individuale? Oppure l’eccesso di garanzie e privilegi fa venire meno quella tensione concorrenziale tra studiosi che spinge a migliorare le proprie competenze? O forse si è estinta una generazione di eccellenti studiosi che non hanno saputo gestire la loro successione?
La valutazione del ricercatore, soprattutto in ambito scientifico, è molto delicata. Non può essere considerato valido solo chi produce un flusso costante di risultati direttamente proporzionali al suo trattamento economico, altrimenti si cadrebbe in una visione aziendalista dell’università e si rischierebbe di disincentivare il ricercatore da sperimentazioni più rischiose che produrrebbero risultati solo nel lungo periodo.
Uno dei temi attualmente più discussi riguarda la quotazione del ricercatore stabilita in base al numero delle sue pubblicazioni nelle riviste di eccellenza, come avviene nei paesi anglosassoni. Ma è possibile stabilire oggettivamente la reputazione di una testata? Il criterio di valutazione comunemente adottato si basa sul numero e sulla natura delle citazioni ottenute in un determinato lasso di tempo. Bisogna però tener conto del fatto che le citazioni possono essere più frequenti per lavori più facili e accessibili, a discapito di quelli più complessi. Secondo Magris, nel ranking delle riviste scientifiche, «si assiste così a un paradosso: nel confronto scientifico la concorrenza, intesa quale sistema di incentivi a pubblicare ad ogni costo, anziché promuovere la differenziazione del prodotto conduce al consolidamento del monopolio del pensiero dominante e all’indebolimento del pluralismo. Eppure questo pluralismo, come tutti siamo pronti a riconoscere, dovrebbe essere uno dei primi valori tutelati dalla concorrenza, soprattutto nel campo delle scienze umane il cui progresso avanza nutrendosi della dialettica fra le opposte teorie».
L’autore analizza anche le ragioni del predominio anglosassone nella ricerca economica, che ormai ha assunto un carattere addirittura monopolistico. Pur riconoscendone l’eccellenza, è lecito temere che questa leadership possa determinare un ostacolo alla libera concorrenza.
E cosa dire a proposito della libertà della ricerca? Questa non dovrebbe essere dominio dell’interesse di parte, tanto meno politico, «bensì dovrebbe puntare alla scoperta disinteressata della verità», altrimenti la ricerca scientifica sarebbe asservita all’ideologia con gravi ripercussioni sulla libertà di espressione.
Nel quinto e ultimo capitolo del libro, Magris mette in evidenza le differenze tra il sistema formativo statunitense e quello europeo, e italiano in particolare: il primo delegato principalmente al settore privato, il secondo al settore pubblico, ispirato ai principi dell’istruzione libera e gratuita. Negli Stati Uniti, accanto ad atenei di fama mondiale (solitamente privati) a cui accede una minoranza di studenti provenienti da famiglie agiate, molti altri atenei (pubblici) offrono corsi di scarsa qualità e rilasciano titoli privi di valore di mercato: ovvero non tutto quello che avviene nei paesi anglosassoni è privo di difetti.
Certamente l’Italia è appesantita da difetti come ritardi culturali, clientelismo, sistema educativo obsoleto. Ma non dobbiamo dimenticare la tradizione culturale e la capacità di apertura al nuovo che caratterizzano il nostro Paese: altrimenti la doverosa denuncia dei difetti da correggere si riduce a un autolesionismo improduttivo e a «una forma di esterofilia civettuola». Se è legittimo criticare le scelte di un governo che non ci piace, non dobbiamo dimenticare la nostra appartenenza nazionale né rinnegare le nostre radici culturali. Anche se abbiamo molto da imparare in termini di efficienza, è solo valorizzando una tradizione culturale, scientifica ed economica che tante eccellenze ha regalato e – ricordiamolo – continua a regalare al mondo che possiamo trovare la spinta per realizzare quel cambiamento di cui il Paese ha bisogno per entrare a testa alta nel futuro. Una conclusione che ci trova pienamente d’accordo con l’autore.
Isabella Ceccarini