In cima alla lista, un accesso inadeguato alle informazioni sulle opportunità di studio all’estero e la convinzione che i costi siano superiori a quelli del proprio paese (anche se gli studenti britannici stanno cominciando a convincersi del contrario, dato il consistente aumento delle tasse universitarie nel Regno Unito).
Un dato che emerge subito dalla ricerca è la differenza di motivazioni tra i due gruppi di studenti: i britannici vogliono studiare all’estero soprattutto per acquisire le competenze necessarie a costruirsi una carriera nelle compagnie internazionali (la preferenza va agli studi di livello undergraduate e postgraduate), gli statunitensi considerano questa esperienza un’opportunità per viaggiare, conoscere culture diverse e secondariamente per crearsi un curriculum internazionale (il livello prescelto è l’undergraduate). Questi, inoltre, ritengono che un periodo all’estero sia un modo per sviluppare le soft skills e arricchire il proprio bagaglio di conoscenze non accademiche.
I risultati della ricerca smentiscono l’assunto secondo cui gli anglofoni hanno scarsa dimestichezza con le lingue straniere: quattro studenti su cinque dichiarano di non avere difficoltà a usare una lingua diversa dalla propria, e sette delle dieci destinazioni preferite sono paesi non anglofoni. Tuttavia, il 29% degli studenti britannici sceglie come prima meta gli USA (seguiti da Australia e Canada, entrambi attestati al 10%, poi Francia e Germania. L’Italia è prescelta da chi ama l’arte e il design, e guarda alla Cina chi studia in atenei che hanno partnership con questo Paese), mentre il 22% di quelli statunitensi sceglie il Regno Unito, ritenendo che in questi paesi sia più facile trovare università di eccellenza. Le altre mete dei ragazzi statunitensi sono Francia e Spagna (11%), seguite da Italia e Australia.
Infine, alcuni studenti sono scoraggiati dalle pratiche burocratiche e dagli aspetti organizzativi di un trasferimento temporaneo, altri (soprattutto gli statunitensi) ritengono che abbandonare per un anno amici, famiglie e squadre sportive avrebbe un impatto sicuramente negativo sul loro successo economico e sociale futuro, dando maggiore importanza a questa rete di relazioni piuttosto che a un’esperienza lontano da casa.
Isabella Ceccarini
(11 marzo 2013)