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Il Rapporto Funding of Education in Europe: The Impact of the Economic Crisis, curato da Eurydice per la Commissione Europea, ha evidenziato gli effetti della crisi economico-finanziaria e dei provvedimenti conseguenti[1] sul finanziamento del settore educativo.
La gran parte degli Stati partner (8 su 25 dal 2000 al 2010, saliti a 20 su 25 nel biennio 2011-12) ha risposto alle difficoltà operando tagli più o meno drastici ai fondi per l'istruzione a tutti i livelli: uguale o superiore al 5% in Grecia, Italia, Cipro, Lettonia, Lituania, Ungheria, Portogallo, Romania, Regno Unito (Scozia) e Croazia; tra l'1% e il 5% negli altri, tra i quali Irlanda, Spagna e Francia. In assenza di dati disponibili per la Germania, aumenti superiori al 5% sono stati invece apportati da Belgio (di lingua tedesca), Lussemburgo, Malta e Turchia.
In particolare, per l'istruzione universitaria:
- è rimasto stabile il numero delle istituzioni di insegnamento superiore, fatta eccezione per alcuni Paesi, che le hanno ridotte come strategia per raggiungere un numero ottimale in termini di competitività o per ragioni collegate alla qualità e altri 4 (Bulgaria, Lettonia, Lituania e Italia - che ha tagliato i corsi meno frequentati), che lo hanno fatto per controllare la spesa pubblica;
- dal 2000 al 2009 sono complessivamente aumentati gli stanziamenti (passati dal 13% al 17,4% del budget) per gli studenti - ivi compresi i fondi per il diritto allo studio, chiave strategica per favorire l'accesso universitario anche agli economicamente svantaggiati. A partire dal 2010, però, la crisi ha spinto molti Paesi, tra cui Spagna e Regno Unito ad aumentare le tasse con l'obiettivo di adattarle maggiormente ai costi reali degli studi;
- meno immediate le conseguenze sul rapporto docenti/studenti sia perché i professori sono difficilmente riducibili, avendo - almeno in metà dei casi - lo status di pubblico dipendente e sia perché le procedure di reclutamento sono molto lunghe. Nel periodo considerato soltanto 3 Paesi (Bulgaria, Lituania e Portogallo) hanno ridotto numericamente il corpo docente; nei rimanenti Stati ne è stata registrata una crescita, che in alcuni casi però non è bastata a ridurre il rapporto docenti/studenti in quanto contrapposta alla contemporanea crescita dell'utenza universitaria;
- generalizzata contrazione delle spese in conto capitale, che hanno originato sensibili effetti negativi sulle infrastrutture e/o sul mantenimento o la costruzione di nuovi immobili;
- molto variegate le priorità evidenziate a livello nazionale a partire dal 2013 (non menzionata l'Italia nell'elenco dei buoni propositi): efficienza nell'uso delle risorse; razionalizzazione dei servizi amministrativi per operare economie di scala; aumento delle retribuzioni al personale docente (in Polonia); aumento delle iscrizioni studentesche (Danimarca); miglioramento qualitativo del servizio offerto (Regno Unito, Irlanda del Nord e Germania, che assegnerà fondi aggiuntivi ai Länder per gli adempimenti connessi al Processo di Bologna e per finanziare studenti e giovani scienziati talentuosi); creazione di nuovi posti per docenti e staff (in Francia ne saranno istituiti 60.000 nel prossimo quinquennio); maggiori stanziamenti a favore della ricerca e dell'innovazione (Spagna e Slovacchia).
Maria Luisa Marino (aprile 2013)
[1] Il Patto di Stabilità, per dissipare i dubbi sulla sostenibilità della finanza pubblica europea, obbliga gli Stati membri al contenimento del debito pubblico e comporta forti interventi nazionali sulla spesa pubblica. Solo 1/3 dei Paesi europei vanta un rapporto debito pubblico/Pil nel limite del 60% stabilito dall'Unione Europea a Maastricht, 3 Paesi virtuosi (Bulgaria, Estonia e Lussemburgo) non superano il 20%; all'opposto, quelli vicini al 100% (Francia e Regno Unito all'86%) o che superano tale percentuale (Irlanda 106%, Portogallo 108,1%, Italia 120,7% e Grecia 170,6%).
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