I professori ordinari e i ricercatori universitari potranno rimanere in cattedra fino a 72 anni. Lo stabilisce la sentenza della Corte costituzionale n. 83 del 6 maggio scorso, che concede anche ai docenti over 70 la possibilità di fruire dei due anni di proroga previsti dal dl 503 del 1992, che regolamenta i pensionamenti dei dipendenti pubblici.
Viene così sconfessato uno dei passaggi nevralgici della riforma disegnata dalla legge 240/2010, che considerava inapplicabili a professori e ricercatori le disposizioni dell’articolo 16 del suddetto dl 503/92, fissando così l’età pensionabile dei professori ordinari a 70 anni e dei ricercatori a 65 anni. Una decisione presa dall’allora ministro Gelmini per favorire il ricambio generazionale all’interno degli atenei e facilitare così l’ingresso di nuove leve di ricercatori. Una disposizione ritenuta invece incostituzionale dalla Consulta, che definisce la norma «sbilanciata e sproporzionata, perché, in nome dell’esigenza del ricambio generazionale, il legislatore non si sarebbe fatto carico delle negative ripercussioni che potrebbero derivarne sul principio di buon andamento dell’amministrazione e della tutela dell’autonomia universitaria». La Consulta ha inoltre respinto le ragioni di contenimento finanziario e di razionalizzazione della spesa pubblica alla base dell’impianto della legge 240/2010, ragioni che appaiono inammissibili «ad un sia pur sommario vaglio critico».
La sentenza della Consulta è legata al ricorso presentato da un professore settantenne dell’Università di Roma Tor Vergata, rivoltosi dapprima al Tar e poi al Consiglio di Stato, che a sua volta aveva rimandato l’esame alla Consulta. Vengono così riconosciute le istanze dei professori universitari che, pur giunti all’età del pensionamento, si sono ritenuti discriminati rispetto alle altre categorie di lavoratori pubblici, cui è invece riconosciuto il diritto di usufruire del cosiddetto “biennio Amato”.
La Consulta ha ritenuto tale esclusione «priva di giustificazioni», dal momento che non si è prestata attenzione «ai caratteri e alle peculiarità dell’insegnamento universitario». Tanto più che, in questo modo, gli atenei potranno fruire dell’operato di figure di alta professionalità, la cui permanenza per ulteriori due anni «consente all’Amministrazione di utilizzare esperienze professionali ancora valide, dall’altro contribuisce a ridurre il numero dei beneficiari del trattenimento; in terzo luogo, questo impegna un arco di tempo contenuto (al massimo, un biennio) che non sembra suscettibile d’incidere in misura apprezzabile sulla spesa pubblica».
Queste le ragioni sostanziali che hanno portato la Consulta a rigettare il dettato dell’art. 25 della legge 240/2010, «una disciplina sbilanciata e irrazionale, che si pone in deciso contrasto con gli articoli 3 e 97» della Costituzione.
Andrea Lombardinilo
(17 maggio 2013)