Cedam, 2012, pp. 303
Secondo la definizione fornita dall’Ocse, il capitale umano è costituito dall’insieme delle conoscenze, delle abilità, delle competenze e delle altre caratteristiche individuali che facilitano la creazione del benessere personale, sociale ed economico. Ma fino a che punto la conoscenza e l’apprendimento possono essere considerati come un investimento, e correttamente misurati? E quali aspetti della produzione e dell’utilizzo dei saperi produttivi possono essere contabilizzati?
Lo studio approfondisce il rapporto tra capacità cognitiva, scolarità e competenze, e analizza pregi e limiti del lifetime income approach, il più autorevole metodo di stima del capitale umano oggi in uso. Secondo una tendenza internazionale, chi può vantare un maggiore livello di istruzione generalmente viene più richiesto dal mercato del lavoro, che premia con retribuzioni più alte chi ha studiato di più.
In Italia, al contrario, si è verificato finora l’aumento delle carriere dei meno istruiti e una certa compressione occupazionale dei laureati, presentando un divario rispetto ad altri Paesi, che annoverano quote di occupati scolarizzati a livello terziario superiori al nostro. Fortunatamente non mancano le realtà di positive: forme aggregative a livello regionale quali i consorzi tra università, enti pubblici di ricerca e associazioni dei datori di lavoro, che hanno originato l’avvio di poli tecnologici.
Ovviamente, disporre delle informazioni sui comportamenti dei soggetti coinvolti è di notevole importanza per ottenere un quadro del processo produttivo nazionale. In tale ottica, l’autore propone la creazione di un conto satellite del capitale umano nazionale, da affiancare a Indaco e Ril – le due banche dati dell’Isfol già operanti – per aprire la strada agli sviluppi della ricerca nell’ambito dell’eterogeneità del capitale umano e del ruolo della domanda di lavoro nella sua accumulazione e valorizzazione.
Maria Luisa Marino