– per la parte privata, alla ridotta dimensione aziendale e alla gestione largamente fondata su un management familiare;
– per la parte pubblica, all’assenza di uno stringente sistema di coordinamento, che crea rischi di duplicazione e di frammentazione delle iniziative, nonché al limitato utilizzo di criteri premiali, basati sui risultati per l’allocazione delle risorse finanziarie tra progetti e attori (enti pubblici e università).
L’incidenza complessiva della spesa in R&S sul PIL – 1,3% nel 2011 – è inferiore non solo all’obiettivo del 3% fissato nella Strategia Europa 2020, ma anche alla media UE già raggiunta (1,9%) e soprattutto al 2,8% della Germania. Con un’incidenza ancora più bassa per la componente privata e un divario più ampio in relazione alla propensione a realizzare brevetti.
Poco più del 40% della spesa è effettuata nel settore pubblico (università e centri di ricerca pubblici), la cui produzione scientifica non sfigura in termini quantitativi e qualitativi nel confronto con altri Paesi, sebbene poche strutture universitarie italiane siano presenti nelle posizioni di eccellenza delle principali graduatorie internazionali. Secondo il MIUR, l’Italia rappresenta l’8° Paese per numero di pubblicazioni scientifiche (circa 852.000 nel periodo 1996-2011) dopo la Francia (1,1 milioni) e la Germania (1 milione), ma prima della Spagna (666.000). Meno frequenti i casi di eccellenza delle strutture: sulla base della graduatoria webometric 2012, solo 4 università italiane contro le 15 della Germania, le 10 del Regno Unito e le 7 della Spagna appaiono tra le prime 200 del mondo.
Negli ultimi due decenni non sono mancate misure per rafforzare l’innovazione attraverso la nascita e lo sviluppo di cluster tecnologici, ispirandosi anche alle esperienze di agglomerazioni volontarie di imprese ad alta tecnologia per attirare sinergie tra centri di ricerca, università e imprese private in ambiti geografici circoscritti (come i distretti tecnologici e i parchi scientifici e tecnologici).
Scuola e università – come ha evidenziato il Governatore Ignazio Visco nelle Considerazioni finali, presentate lo scorso 31 maggio all’Assemblea Ordinaria dei Partecipanti – devono mirare ad accrescere i livelli di apprendimento e a sviluppare nuove competenze anche per superare il gap della nostra forza lavoro, che annovera una delle quote più basse di laureati, riflettendo sia una carenza di lavoratori con un alto grado di istruzione che una domanda capace di privilegiare il lavoro meno qualificato. Non a caso, il calo dell’occupazione è disomogeneo tra i livelli di istruzione: -0,4% sia tra i laureati (al 76,6%) che tra le persone con licenza media (43,7%), mentre si è contratto di un punto percentuale (al 64,2%) tra i lavoratori in possesso del solo diploma di scuola superiore.
Antonella Lorenzi
(6 giugno 2013)