Aumentare le detrazioni fiscali sulle tasse universitarie, anche per porre rimedio alla «estrema gravità» di un mancato riconoscimento del diritto allo studio anche per i meno abbienti, e allinearsi al resto d’Europa sui finanziamenti pubblici. In un colloquio con “Universitas” il segretario generale della Crui e rettore dell’Università di Bergamo Stefano Paleari torna a indicare misure concrete per assicurare le adeguate risorse alle università, dopo l’allarme lanciato dall’ultimo Rapporto dell’EUA(European Universities Association).
I dati del Rapporto EUA indicano come la spesa pubblica per l’università debba esser vista come una risorsa per uscire dalla crisi, non come un mero costo. Come invertire la tendenza sulla diminuzione di più del 10% del finanziamento ordinario?
L’analisi comparata con gli altri atenei europei ci permette di evidenziare tanto la situazione dei finanziamenti all’università nei vari paesi, quanto la risposta degli stessi a fronte della crisi che stiamo attraversando. In particolare, Paesi come Germania, Francia, Olanda e Norvegia hanno risposto investendo di più sullo studio, la ricerca e l’innovazione. È chiaro che lo Stato italiano non può continuare a spendere solo 109 euro all’anno per cittadino, ma deve allinearsi con il resto d’Europa, anche viste le performance delle università e i cambiamenti fatti negli ultimi cinque anni, che hanno visto miglioramenti enormi nella spesa e nella rendicontazione delle risorse. Sarebbe una misura necessaria anche per migliorare l’attrattività delle università italiane nei confronti dei ricercatori, visto che da una parte continuiamo a esportare degli studenti sui quali lo Stato investe e che poi non trovano spazi per la ricerca in Italia, dall’altra non abbiamo alcuna attrattività per i ricercatori stranieri. Personalmente sono convinto che questo sia un problema generale di competitività del sistema-Paese e non solo dell’università, e che sia urgente porvi rimedio.
Visto lo stato delle nostre finanze, da dove ripartire?
Considerato che le rette universitarie in Italia costano in media un po’ di più che in Francia, Spagna o Germania, abbiamo ripetutamente suggerito che la detrazione fiscale per le famiglie che oggi è ferma al 19% fosse molto più alta: questo non solo per la situazione difficile che sta vivendo il nostro Paese, ma anche perché lo Stato da diversi anni non garantisce più il diritto allo studio a tutti – specie ai meno abbienti – e questo è un fatto estremamente grave. Inoltre, il percorso che è stato fatto a partire dal 2006 ha introdotto degli elementi di premialità e di crescita delle università che hanno già portato dei cambiamenti sostanziali, fino all’istituzione dell’Anvur che ha fatto fare molti passi avanti agli atenei, con la rivalutazione della ricerca e dei corsi di studio: quindi oggi le università hanno le carte in regola, ci sono gli strumenti per valutare gli input e non solo l’output. Stiamo parlando di poco più di 100 euro l’anno contro i 300 che vengono spesi in media all’estero: c’è una differenza di 12 miliardi di euro all’anno. Se consideriamo che l’università italiana lavora con meno risorse che in altri Paesi e che continua a formare studenti e ricercatori che trovano lavoro o incarichi di ricerca all’estero, dobbiamo concludere che delle due l’una: o all’estero fanno le stesse cose sprecando risorse, oppure noi manteniamo un livello mediamente alto della didattica e della ricerca, dunque esprimiamo con i nostri laureati e ricercatori un sistema che funziona, pur spendendo un terzo degli altri. Se si chiedesse ai cittadini quanto vorrebbero che dalle loro tasse (parecchie migliaia di euro) venisse investito sulle università, certamente indicherebbero più dei 109 euro attuali!
Non pensa che, come avviene all’estero e come si dibatte da anni, varrebbe la pena puntare su altre forme di finanziamento come le donazioni, le risorse europee o di privati?
Il fatto di rivolgersi a fonti alternative è giusto di per sé, ma queste forme dovrebbero essere complementari ai fondi pubblici, non si sostituiscono ad essi. Il dibattito sulle risorse non pubbliche per le università coinvolge aspetti qualitativi, certamente, ma anche ordini di grandezza: le forme di finanziamento da privati o da aziende o da donazioni sono comunque minoritarie in percentuale nel bilancio generale, anche delle università europee. Se si vogliono percorrere queste strade ci deve essere un quadro di incentivi: in Italia le donazioni per l’università e la ricerca sono vicine allo zero, e siamo poco attrezzati anche dal punto di vista normativo, oltre che delle detrazioni fiscali.
Lei ha lanciato un allarme preciso: se lo Stato non torna a investire risorse sull’università, saremo fuori dall’Europa e fuori da prospettive di ripresa economica.
Certamente. Quanto ancora potremo andare avanti così? Guardiamo alle pratiche virtuose di quei Paesi che hanno subito catastrofi o calamità naturali: l’esperienza ha chiaramente indicato che la prima cosa da fare in questi casi è aprire scuole e università, perché si manda un segnale agli adulti che la comunità guarda al futuro. Poi si può discutere sulla qualità delle discipline, sull’entità dei finanziamenti, sulla necessità di programmazione, ma l’idea di fondo è che senza un investimento sulla filiera educativa il Paese non andrà lontano. Certamente il finanziamento deve essere mirato, legato ai risultati, fatto per tappe, proporzionale, ma se gli altri investono almeno il triplo che da noi dovremmo dire che con un terzo dei finanziamenti riusciamo a fare cose comparabili.
In Italia ci sono 67 università pubbliche e 26 private: si è parlato spesso della dispersione degli atenei sul territorio come uno dei mali della nostra istruzione superiore. Che ne pensa del dibattito sull’accorpamento, anche a fronte della scarsezza delle risorse pubbliche disponibili? Sinceramente lo considero un luogo comune e un falso problema: riflettere sul fatto che l’assetto attuale sia il migliore possibile o richieda delle correzioni è normale, ma dire che chiudere 5 o 10 università sia la panacea di tutti i mali è francamente una strumentalizzazione. Anche su questo, guardiamo all’analisi comparata: in Olanda, con un decimo della popolazione, ci sono 14 università e 41 istituti vocazionali; in Germania ci sono 83 università e 184 Fachhochschulen, con una dimensione media di 17.000 studenti per ateneo. Perciò dico che occorre valutare caso per caso, ovvero nel merito: una cosa è ragionare sulla razionalizzazione, un’altra è dire che bisogna chiudere delle università. C’è anche da dire che negli ultimi quattro anni il numero dei corsi di laurea è diminuito del 25%, dunque è già avvenuta una razionalizzazione dei corsi inutili. Può darsi che questo processo non si sia ancora concluso, che debba continuare, ma certamente la diminuzione degli atenei non è una priorità.
Pensa che la nomina dell’attuale presidente della Crui Marco Mancini a capo dipartimento del Miur per l’università e la ricerca lo aiuterà a portare avanti le battaglie che avete condotto in questi anni?
Nell’assumere il nuovo incarico, certamente il prof. Mancini risponderà alle richieste che vengono dal Governo sull’elaborazione delle politiche pubbliche verso l’istruzione superiore. Quel che posso dire è che in questi anni di collaborazione ho imparato ad apprezzare le sue grandissime competenze, professionalità e qualità umane non comuni: dunque non posso che augurargli buon lavoro, nella certezza che lavorerà nell’interesse generale non solo dell’università ma di tutto il Paese.
Manuela Borraccino
(luglio 2013)
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