Il Rapporto intende offrire ai decisori politici e agli utilizzatori gli elementi utili per una migliore conoscenza dei Mooc (Massive Open Online Courses, cfr. il n. 129 di Universitas), che alimentano approfonditi dibattiti a proposito del loro impatto su diversi aspetti della missione universitaria: rapporti con un’utenza allargata, mantenimento della qualità del servizio offerto, modalità di finanziamento, introduzione di nuovi modelli educativi.
L’indagine di Yuan e Powell, arricchita da un’interessante bibliografia, rende noti in particolare anche gli sviluppi registrati sia nel Regno Unito (in risposta agli aumenti nella tassazione universitaria) che negli Stati Uniti e in Canada, ove soggetti economici privati hanno fatto la loro comparsa sul mercato della formazione accanto o indipendentemente dalle istituzioni universitarie.
Il fenomeno si è configurato nell’ultimo quinquennio come estensione dei preesistenti approcci di insegnamento online, favorito – specialmente nelle aree economicamente più sviluppate – dall’uso delle nuove tecnologie. Il termine Mooc è stato introdotto per la prima volta nel 2008 da Dave Cormier per descrivere il corso tenuto dai proff. Siemens e Downes Connectivism and Connective Knowledge destinato inizialmente a 25 iscritti a pagamento; contemporaneamente vi parteciparono, gratuitamente e senza riconoscimento di crediti, 2.300 utenti sparsi nel mondo che avevano chiesto di iscriversi. Nel 2011 il prof. Sebastian Thrun e i suoi colleghi dell’Università statunitense di Stanford attirarono allo stesso modo ben 160.000 utenti da più di 190 Paesi per il corso Introduction to Artificial Intelligence.
Varie possono essere le motivazioni che animano la libera partecipazione degli utenti, anche non tradizionali: miglioramento dell’identità culturale e professionale, approfondimento di argomenti di particolare interesse per orientarsi nella scelta di una sede universitaria testando la qualità dell’insegnamento offerto da un ateneo, o anche semplicemente per passatempo. I risultati finora non sono stati sempre adeguati alle attese: negli Stati Uniti ad esempio solo il 7% degli iscritti a corsi Mooc ha superato gli esami di Ingegneria all’Università di Berkley e una percentuale poco più alta (dal 5% al 20%) ha riguardato il Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston.
In ogni caso, più che nei preesistenti corsi a distanza, Mooc è sinonimo di libero accesso per un numero indefinito di partecipanti con effetti dirompenti (la teoria del “disruptive system and innovation” è stata ipotizzata nel 1995 da Bower e Christensen) sulla formazione. Nel 2020 la popolazione universitaria mondiale conterà prevedibilmente 120 milioni di utenti e nel 2015 secondo il Global Industry Analists il mercato globale dell’e-learning raggiungerà i 107 miliardi di dollari.
La rapida espansione del fenomeno ha attirato l’attenzione sia delle istituzioni universitarie – che mettono i propri corsi online (ne è un esempio la piattaforma edX fondata dal Mit e da Harvard University) alla ricerca di ulteriori finanziamenti capaci di supplire ai tagli di bilancio – sia di alcune aziende (ad esempio, Coursera, Udacity e la britannica Futurelearn, lanciata dall’Open University), che fiutando l’affare, sono scese in campo, scegliendo di operare in collaborazione con prestigiosi atenei. Altri esempi sono Udemy, P2PU, Khan Academy.
Non mancano gli interrogativi sulle problematiche connesse: innovazioni da apportare in ambito pedagogico con la creazione di nuovi modelli educativi più adeguati alle circostanze, salvaguardando gli aspetti qualitativi. Ma soprattutto gli Autori – in presenza di realtà frammentarie e ancora non adeguatamente regolamentate – esortano le università a rafforzare e sviluppare un piano strategico e coordinato per assumere decisioni informate a livello nazionale e internazionale a vantaggio di un insegnamento di qualità e più accessibile a tutti.
Maria Luisa Marino