Unesco, Parigi 2013, pp. 296
Il volume – che inaugura la serie delle pubblicazioni UNESCO dedicate alle tendenze e alle sfide future dell’Education at a Move – offre una panoramica dei più conosciuti ranking universitari, evidenziando i vantaggi e gli inconvenienti di un sistema destinato a facilitare la comparazione qualitativa delle università mondiali. Il testo prende lo spunto dal Convegno svoltosi nel 2011 nella sede UNESCO di Parigi (in coordinamento con OCSE e World Bank): grazie a qualificati contributi aiuta i lettori a districarsi nelle classifiche mondiali, chiarendone gli approcci metodologici, i punti di forza e le carenze.
La pratica dei ranking è sorta agli inizi del secolo scorso con la pubblicazione nel Regno Unito della ricerca Where We Get Our Best Men che, analizzando i percorsi formativi compiuti dagli uomini di successo dell’epoca, stilava una classifica delle università da essi frequentate. Dopo parecchi decenni di disinteresse per la problematica, hanno fatto seguito nel 1983 l’America’s Best Colleges, pubblicata dal “US News and World Report” e dieci anni più tardi la britannica Times Good University Guide, fino all’Academic Ranking of World Universities (ARWU) dello Shanghai Jiao Tong University (2003) e all’Higher Education World University Rankings del “Times Higher Education” (2004). L’UNESCO ha seguito l’evoluzione del fenomeno anche con la pubblicazione dei Rapporti sulle ranking methodologies (2005) e sulla creazione delle world class universities (2007 e 2009).
I ranking sono percepiti come uno strumento di misura della qualità, capace di influenzare politiche pubbliche e scelte studentesche, originando conseguentemente una forte concorrenza tra le università di tutto il mondo. Ma potrebbe questa corsa al rialzo soffocare la diversità e l’innovazione nei modelli universitari? Delle oltre 17.000 istituzioni universitarie distribuite nel mondo, soltanto l’1% figura al vertice delle tre più quotate classifiche e, benché dissimili in molti aspetti, ricomprende tra i primi 200 gli atenei più antichi (creati da oltre 200 anni), e quelli maggiormente specializzati nella ricerca scientifica, con circa 25.000 studenti iscritti, 2.500 docenti e bilanci annuali superiori ai 2 miliardi di dollari.
Gli autori evidenziano molti degli inconvenienti dei sistemi di classificazione prevalenti, quali ad esempio l’eccessiva focalizzazione degli indicatori sulla produzione della ricerca scientifica a scapito della valutazione dell’impatto sociale nelle comunità locali e delle discipline umanistiche in particolare. In generale, le classifiche non andrebbero utilizzate come unica fonte di informazioni, ma possono contribuire a migliorare la trasparenza e la responsabilità nel mercato globale dell’istruzione superiore. Piuttosto dovrebbero evolvere per fornire informazioni più pertinenti alle esigenze, contribuendo alla crescita di sistemi di istruzione superiore di livello mondiale piuttosto che di un numero limitato di istituzioni di livello mondiale.
Più rispondente potrebbe risultare l’approccio di U-Multirank, la nuova iniziativa lanciata dall’Unione Europea, intenzionata ad assicurare trasparenza e visibilità anche alle sedi meno impegnate nella ricerca scientifica.
Le maggiori difficoltà per tracciare criteri di valutazione univoci si hanno in Africa dove la crescita dell’accesso non è stata finora accompagnata dal miglioramento qualitativo delle prestazioni offerte. L’African Quality Rating Mechanism (AQRM), istituito come alternativa alle classifiche mondiali, anziché confrontare le singole università, assume come pietra di paragone lfintero Continente, al punto che la World Bank sta esplorando la possibilità di progettare nuovi criteri, che privilegino più limitati fattori rilevanti per lo sviluppo regionale. E soprattutto, in presenza della mania imperante di ranking universitari, non bisogna perdere di vista l’utente finale e il vero obiettivo di fargli conoscere in anticipo il possibile utilizzo occupazionale di un determinato percorso di studio.
Maria Luisa Marino