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Quest'anno si celebra il cinquantesimo compleanno del Censis, un'istituzione che ha interpretato gli umori della società italiana, i suoi cambiamenti e le sue evoluzioni politico-sociali. Nel novembre 1963 nasce come associazione per realizzare studi e ricerche sociali, e inizia l'attività il 1° gennaio 1964. Nel 1973 diventa una fondazione legalmente riconosciuta con decreto del Presidente della Repubblica. La presentazione delle sue ricerche è sempre stata caratterizzata da una terminologia particolare, ricca di neologismi entrati stabilmente nel linguaggio comune: pensiamo al "sommerso", allo sviluppo "a macchia di leopardo", alla "società molecolare", solo per citarne alcuni.
Come ha detto il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, «se guardiamo a questi 50 anni possiamo dire che non solo siamo vissuti e sopravvissuti, non solo abbiamo avuto un certo successo professionale, non solo il brand Censis si è affermato e consolidato nel tempo, ma possiamo anche dire che, pur essendo soggetti privati operanti sul mercato, noi abbiamo maturato ed espresso una grande ambizione a essere istituzione, a lavorare come istituzione, a coltivare contenuti di valore istituzionale».
In questo periodo particolarmente difficile, il 47° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese non ha mancato di mettere a fuoco i nodi di una società «sciapa e infelice in cerca di connettività». Gli italiani non sono esausti solo per i problemi che affliggono il Paese (disoccupazione, povertà, mancanza di servizi), ma soprattutto per l'inerzia e l'indifferenza della classe politica di fronte a questo scenario: come dire che se quelli che hanno il potere di cambiare la situazione non vogliono o non sono capaci di farlo, è impossibile sperare in un domani migliore. Basta un dato per tutti documentare questa miopia: l'Italia, primo paese al mondo nella graduatoria dei siti Unesco, impegna nel settore culturale meno lavoratori degli altri Stati europei.
Venendo in particolare al capitolo dedicato ai Processi formativi, emerge un dato preoccupante: il 21,7% della popolazione italiana con più di 15 anni ancora oggi possiede al massimo la licenza elementare. Anche se il dato è concentrato nelle fasce d'età più anziane, non manca tra i più giovani una percentuale di persone che non ha mai conseguito un titolo di scuola secondaria di primo grado. È fuori dubbio che, in un contesto complesso come l'attuale, tornare a scuola costituirebbe un vantaggio, destinato a spezzare il circolo vizioso tra bassi titoli di studio, problemi occupazionali e scarsa propensione alla formazione. In Italia, l'abbandono precoce degli studi si aggira intorno al 20%: una percentuale molto distante non solo dalla media europea (12,8%), ma soprattutto dall'obiettivo di Europa 2020, che fissa al 10% la quota di early school leavers.
Le università italiane non se la passano meglio, perché - nonostante alcuni picchi di eccellenza - il sistema si presenta complessivamente troppo provinciale e rende difficile la loro collocazione nelle reti internazionali di ricerca. La prima conseguenza è la scarsa mobilità in entrata di docenti e studenti e l'esigua attrazione di capitali per investimenti in ricerca. Una ulteriore criticità è costituita dal divario territoriale tra Nord e Sud, dove l'indice di attrattività regionale delle università mostra un andamento decrescente di lungo periodo. Il Censis ha chiesto ai rettori qualche proposta per accrescere la competitività dei nostri atenei: tra i fattori determinanti sono stati indicati il miglioramento della qualità dei servizi e delle strutture di supporto alla didattica (73,8%), lo sviluppo di collaborazioni internazionali nelle attività di ricerca (54,8%), lo sviluppo di percorsi di laurea a doppio titolo/titolo aggiunto con atenei stranieri(52,4%), le ricerche di grande rilevanza scientifica (40,5%) e l'incremento del numero di laureati in corso (38,1%).
Isabella Ceccarini (dicembre 2013)
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