Il 9 gennaio è morto a Leeds il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman (era nato a Poznan il 19 novembre 1925). Novantuno anni vissuti intensamente fino alla fine, con lucidità e capacità di analisi che avrebbero fatto invidia a un trentenne. La sua grande popolarità era dovuta anche all’abilità di parlare in modo semplice, ma non superficiale, alla gente comune.
Bauman è stato testimone delle crisi, delle tragedie e dei cambiamenti che hanno attraversato il Novecento. Si è servito di metafore efficaci – come la “società liquida” o le “vite di scarto” – per rappresentare la solitudine dell’uomo in un mondo globalizzato dove il presente, dominato dalla cecità morale, sembra farsi sempre più oscuro: la dissoluzione delle comunità e delle relazioni umane continua a minare le nostre certezze, e il concetto di “rifiuti” viene applicato anche agli essere umani.
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Facendo un confronto tra il periodo della guerra e quello attuale, il sociologo rilevava un differenza sostanziale: allora c’era la speranza di uscire dal tunnel, oggi l’insicurezza sembra non avere fine. Eppure, sebbene constatasse la dissoluzione delle relazioni e la rincorsa di piaceri effimeri, Bauman non era pessimista: il raggiungimento di un nuovo equilibrio avrebbe richiesto molti anni, ma i giovani avrebbero potuto affrontare con successo la sfida di un cambiamento. Un’esortazione ad affrontare realtà complesse ritrovando il senso di condivisione.
Bauman si era soffermato anche sui cambiamenti e sulle innovazioni delle istituzioni formative: «la crisi dell’era postmoderna ha indebolito la centralità istituzionale del sapere e dei suoi rappresentanti», come citato nell’articolo pubblicato in Universitas 130 alle pp. 57-60.
Isabella Ceccarini
(gennaio 2017)