In un contesto quale quello universitario è possibile discutere di molte cose. Si può parlare di politica, di sport, di cultura storica e sociale, dell'internazionalizzazione del sapere scientifico e dell'importanza della ricerca. Parlare della solidarietà è più difficile, perché essa rappresenta un concetto che difficilmente riesce a conciliarsi con la struttura universitaria. Oggi l'università è diventata banco di lavoro di una rigida catena di montaggio finalizzata alla produzione di beni per la società; ma l'università, nella sua concezione etica, nasce innanzitutto come "comunità umana" nella quale vengono ad essere formati i protagonisti della società del futuro. Dove l'università riesce ad essere davvero comunità, la solidarietà non avrà bisogno di essere insegnata perché coltivata dai membri stessi.
Quando si parla di solidarietà umana, la prima cosa a cui si pensa è un particolare tipo di aiuto dato a coloro che sono in situazione di difficoltà economica e sociale. I Paesi in via di sviluppo rappresentano la finalità dell'educazione alla solidarietà. In Italia c'è un'università, il Campus Bio-Medico in Roma, che educa i propri studenti a tale tipo di solidarietà e fornisce una risposta positiva alla domanda che ci si è posti nel dare un titolo a questo articolo. Il Campus ha la solidarietà nel suo DNA perché, come recita una parte del proprio Statuto, "l'università vuole [...] promuovere il senso della solidarietà e della fraternità, che si manifesti in opere, sapendo mettere il proprio prestigio professionale a servizio del bene comune" (Universitas 115. Gianluigi Mottini, È possibile insegnare la solidarietà all'università?, pp. 36-39). L'eccezionalità sta nel modus docendi, nella capacità di formare umanamente le giovani generazioni di medici, trasformando le proprie competenze professionali in un aiuto concreto orientato ad un autentico servizio.
Il Campus sfrutta varie possibilità per unire la formazione umana degli studenti alla concreta solidarietà nei confronti dei Paesi in via di sviluppo: viene svolto un corso di aiuti umanitari, attività didattica opzionale svolta mediante incontri con attori del mondo dell'aiuto umanitario e protagonisti di iniziative di cooperazione allo sviluppo, italiani e stranieri; vengono programmate esperienze dirette degli studenti in paesi partners tra i quali l'Uganda, il Congo, il Kenia e il Madagascar, tramite lo strumento del medical workamp pianificato in protocolli di ricerca epidemiologica concepita come componente di campagne di salute per la popolazione locale, con visite mediche, esami diagnostici e fornitura gratuita di farmaci per le patologie correnti; c'è la possibilità di effettuare stages presso le strutture ospedaliere africane in convenzione con il Campus Bio-Medico; c'è infine la possibilità di sfruttare tale esperienza per far conoscere al resto del mondo le gravi situazioni in cui versano questi paesi tramite la ricerca e le pubblicazioni scientifiche. L'esperienza di ricerca in condizioni difficili e di precarietà (ben lontane dalle comodità e asetticità dei laboratori europei), il contatto amicale e formativo con i colleghi africani, il confronto con una realtà di povertà e malattia fanno di queste opzioni un'opportunità di formazione integrale: un'esperienza umano-professionale di grande impatto.
Oggi, per poter svolgere attività di ricerca a favore dei Paesi poveri, occorre di solito far parte di un'associazione di volontariato oppure avere già una discreta esperienza in tale campo. Presentare l'attività del Campus Bio-Medico non è fare pubblicità a questa struttura, ma sottolineare come il sistema universitario sia l'unico in grado di colmare il vuoto formativo tra la formazione studentesca e professionale e il lavoro concreto in questi Paesi, disinnescando l'aporia di sistema che impedisce alle istituzioni della società civile di fare davvero "sistema" per la cooperazione allo sviluppo. Resta da rilevare che la presenza universitaria italiana, o comunque occidentale, in Africa svolge davvero un compito prezioso se il suo principale intento non si esaurisce nella qualità e quantità della ricerca biomedica, ma risponde piuttosto a un obiettivo di crescita locale delle competenze a vantaggio del benessere globale della popolazione locale. Si fa ricerca per e con l'Africa e non in Africa.
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